Degli Alberi

 

 

è mercoledì notte, ed il vento soffia a più non posso ai piani alti, rabbioso, anche se grazie ai doppi vetri non ci disturba troppo. Nonostante questo dormo malissimo perché sembra che sul tetto ci sia la guerra: nel dormiveglia ho paura che ci voli via da sopra la testa una tegola alla volta mentre il vento ulula, che la casa prenda il volo come ne Il Mago di Oz…ma sto praticamente sognando.

Non potevo immaginare che al mio risveglio avrei acceso la tv, acceso internet e scoperto ancora prima di uscire che fuori dalla Soffitta, proprio nella mia città e in quelle vicine, si era scatenato il finimondo.

Durante la notte il vento ha soffiato con una violenza mai sentita da queste parti, centosessanta chilometri orari, dicono, e ha fatto volare di tutto. All’inizio penso che sia solo un po’ di psicosi collettiva, un po’ come quando nevica o piove più del solito: dicono che in città non si circola, che le scuole sono chiuse, consigliano di non uscire di casa…

Invece la bacheca di facebook e il cellulare si riempiono in fretta di messaggi e foto di amici che mostrano come è ridotta la loro strada, la loro macchina, la loro casa. Mi arrivano messaggi dalla montagna: case isolate, niente luce, niente telefono, niente acqua. Le strade in pieno centro sono impraticabili per ore per i grossi pini che sono crollati e finiti sui condomini antistanti, la linea ferroviaria è interrotta perché ci sono alberi sui binari. Alcune piazze alberate sono devastate, alberi enormi che per me erano sempre stati lì non ci sono più. Cartelli stradali divelti, una pioggia di embrici che si è abbattuta sulle auto, vetri rotti…sembra un vero disastro.

Le notizie più tristi, per me, vengono dalla campagna, dal paesino dove abitano i nonni e dove abbiamo casa per l’estate. I nonni sono senza luce e quindi senza riscaldamento. Al telefono mi parlano di arnie rovesciate, frutti sradicati, ulivi rovinati, tetti scoperchiati, strade e sentieri sbarrate dai tronchi. C’è un cedro del libano secolare sul tetto della chiesa.

Le ore passano, e come sempre, dopo il panico sembra che qualcosa cominci a smuoversi. A mezzogiorno esco e in alcune zone della città sembra quasi che non sia successo niente. Tutto sommato è andata bene: anche se nel nostro piccolo il disagio c’è e si fa sentire, davanti alle immagini dei terremoti e delle alluvioni ci possiamo ritenere fortunati.

Ma oggi sono salita in macchina, per andare in campagna, e vederlo con i miei occhi è stata un’altra cosa, uno spettacolo terribile.

Sì, perché vedere devastato un luogo che mi è così caro mi spezza il cuore, soprattutto perché so che non tornerà mai come prima. Fra qualche settimana ci saremo dimenticati di tutto questo: sicuramente chi ha avuto più danni si ricorderà della spesa per riparare la macchina, per il muretto crollato, ma la luce tornerà, i tetti saranno sistemati, i rami portati via e tutto tornerà alla normalità. Quello che non ci sarà più saranno le decine di alberi che il vento furioso ha schiantato e buttato giù in un soffio come i bastoncini dello shangai. Piante secolari che hanno impiegato decenni a crescere adesso giacciono in orizzontale e guardano il cielo non con la chioma ma con le radici. Radici forti, enormi, che non si capisce come non hanno tenuto e hanno lasciato una voragine vuota al loro posto.

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Camminare in salita verso casa è stato uno strazio. Oggi c’è un cielo limpido splendido, e silenzio. No, non proprio silenzio, perché tutti stanno lavorando per liberare la strada, i propri campi e giardini, e da lontano arriva il ronzio delle motoseghe, e l’odore di resina dei pini tagliati, mentre il vento freddo non smette di soffiare. La strada per casa nostra è irriconoscibile, ogni dieci passi ci fermiamo. “Quelle querce erano lì quando ero piccola, ci sono sempre state” mi dice mia nonna mentre guardo a bocca aperta questi giganti morti e scomposti.

Sul poggio spoglio resta il moncone troncato di un pino, solo, lì a puntare verso il cielo come una matita spezzata. Guardare alcuni alberi è particolarmente doloroso, per esempio uno dei castagni a cui appendevo l’amaca, da piccola, per leggere all’ombra, o i susini da cui ho colto e mangiato il frutti fino all’estate scorsa, proprio sotto i loro rami.

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Quando ho aperto il blog, senza sapere bene cosa ne avrei fatto, ho scelto l’albero come logo. L’albero come tramite fra cielo e terra, radicato al suolo ma teso verso la luce, l’albero che muore e nasce ad ogni ciclo vitale ad indicare il divenire che sentivo di vivere in quel momento, una me nuova che volevo abbracciare. Un simbolo che mi è caro, una forma di vita a cui mi affeziono.

Ogni volta che percorrerò quella strada non ci saranno più questi guardiani ad osservarmi camminare, a ripararmi dal sole e portarmi un po’ di brezza…di nascosto, avrei voglia di piangere.

 

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