La mia prima volta

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Insomma, è successo che ho lavorato. Il mio primo giorno di lavoro, il primo lavoro della mia vita, il mio primo, vero, giorno da medico, anzi, da dottore.

Se volete sapere cosa si prova, ve lo dico subito: una paura fottuta. Fra i termini più eleganti che conosco non ce n’era uno adatto, perdonatemi.

Già, perché vi assicuro che i libri masticati e digeriti, i pomeriggi a tormentare vecchini in reparto per esercitarsi con la clinica, le tattiche per ricordare i principi attivi dei farmaci vanno in fumo in un secondo quando stai seduta da sola nella stanza della guardia medica in attesa dello squillo del telefono, e finisce che anche se la prima chiamata è a prova d’idiota (“Pronto, vorrei sapere: io soffro di acidità di stomaco…ma la frutta posso mangiarla?”) il tuo neurone solitario va nel panico e riesci a pensare solo cazzocazzocazzo, e ora?

Tutto tranquillo, silenzio per la prima oretta, poi ovviamente si scatena l’inferno e tutti i malati della zona decidono di chiamarti nello stesso momento, proprio mentre sei lì che “dici aaaahhh, forte, fammi vedere che bella lingua hai” cerchi di guardare la gola ad un bimbo.

Poi, non si sa come, ti scatta dentro qualcosa, e alla prima visita domiciliare la macchina sembra andare da sola e si ferma precisa davanti alla casa che ti hanno indicato, mentre nella tua mente elenchi una per una le cause di caduta nell’anziano, almeno quelle che ti vengono in mente.

Decidi almeno di salvare le apparenze, esci, e con un gran sorriso, come se non avessi fatto altro nella vita, ti avvicini alla signora che ti aspetta fuori dalla porta e con una stretta di mano dici “buongiorno, sono la guardia medica”, facendo ben attenzione che almeno si veda la borsa da dottore, perché proprio non ti capaciti di come questa povera donna, che ti fa entrare in casa con fare così amichevole, si fidi tanto di questa ragazzina in jeans che comincia a tirar fuori fonendoscopio, saturimetro e fa un sacco di domande sul perché e percome sua madre è caduta.

Guardi, pensi, tocchi, parli, chiedi, usi un sacco di paroloni ma ti fai un’idea, e quando esci con un paio di chili in meno ti ringraziano pure per essere stata così gentile. A fine mattinata ormai sei entrata nel personaggio, e nella terza casa che visiti ti chiedono perfino se vuoi restare a pranzo. Al panico si unisce una specie di euforia, una strana elettricità giù per la schiena che ti fa sorridere mentre torni all’ambulatorio e pensi che tutto sommato non te la stai cavando poi male.

Qualcuno perplesso c’è: ti dicono“certo che si è laureata giovane, eh?!” oppure si affacciano alla porta con un “salve, cercavo un dottore”, e non sono più tanto sicuri di voler entrare quando sentono “sì, sono io, mi dica pure”, ma in qualche modo li mandi a casa con delle indicazioni o una prescrizione, con la raccomandazione di parlare comunque col proprio medico (“quello vero”, pensi fra te) appena possibile. 

Ovviamente succede che ti portano un bambino piccolo, il tuo terrore, un’oretta prima della fine del turno, ma per fortuna arriva la collega della notte che ti salva dai guai e in qualche modo, quando finisci di riempire la seconda pagina del registro, sono le 20:00 ed è l’ora di andare.

In pratica tutta la mia famiglia ha gravitato con discrezione attorno all’ambulatorio quella domenica (trovare nella borsa un dolcetto che tua madre ti ha portato la mattina, prima che scappassi a visitare qualcuno, ti sembra un miracolo) ma la cosa che mi rende più fiera è che a fare il mio lavoro ero da sola: io, panico o no, a dover prendere delle decisioni importanti (“che faccio, chiamo il 118?”) o più banalmente a muovermi in macchina in una zona che non conosco senza perdermi. E l’ho fatto.

Resta l’ansia di aver sbagliato, di prendermi inconsapevolmente le infamate dei medici di base quando qualche paziente racconterà “la guardia medica mi ha dato questo”, il terrore di aver sottovalutato qualche sintomo o di aver cannato farmaco, ma ricorderò sempre questa prima volta come una bellissima giornata, per tanti motivi.

 

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